martedì 9 febbraio 2010

MORTE A FIRENZE - Marco Vichi - Guanda

Lo ammetto: i personaggi "seriali" della letteratura mi sono sempre un po' rimasti sui coglioni. Lo so che dovrebbero fare l'effetto contrario. Che uno di dovrebbe affezionare e tutto il resto. Ma non c'è nulla da fare, è più forte di me. Ma la cosa non rappresenta un problema irrisolvibile: basta leggere un libro solo e hai già fatto.
Il commissario Bordelli è il protagonista di una trilogia, mi pare di aver capito. Solo che l'ho capito dopo aver letto Morte a Firenze, un'indagine, forse l'ultima indagine, del commissario fiorentino creato da Marco Vichi.
Il libro funziona. Sì, funziona. Si intrecciano un delitto odioso come solo quello ai danni di un bimbo può essere, un "covo" di fascisti, le dinamiche amorose del burbero sbirro. Ma ciò che più di tutto emerge, dalle pagine del libro, è Firenze. Anzi no: è la Firenze alluvionata. Ed è proprio questo che rende il romanzo di Vichi molto, molto particolare.
Non mi piacciono alcuni passaggi "interiori", che ho trovato anche in altri personaggi dello scrittore fiorentino; mi sembrano, ogni tanto, un po' ripetitivi. Ma si deve ammettere che quando prendi in mano un libro di Vichi, difficilmente lo riponi sullo scaffale senza essere arrivato all'ultima pagina.

COMPAGNI DI SANGUE - Michele Giuttari e Carlo Lucarelli - BUR

Altro punto di vista sul mostro e i suoi amiconi della merenda. Stavolta, però, il punto di vista è quello di Giuttari, al tempo capo della mobile di Firenze e "scopritore" della pista che ha portato a individuare Vanni, Lotti e tutti gli altri Compagni di sangue.
Come già detto su questo blog, la vicenda è di per sé appassionante. Una mente letteraria non avrebbe mai potuto partotire qualcosa del genere. Infatti, gli assassini che popolano le pagine dei libri, da sempre, sono "uni", mai "trini" o più. Questo avvalora la tesi per cui sono la terra e il cielo i luoghi più strambi.
Il libro ripropone le indagini di Giuttari, i suoi convincimenti, i passaggi logici, gli interrogatori incrociati. Lo stile, be', quello lascia un po' a desiderare. Pare di leggere un verbale. Ma tutto sommato, la vicenda è troppo succulenta per star dietro a queste piccolezze stilistiche.

lunedì 8 febbraio 2010

IL GIOVANE HOLDEN - J.D.Salinger - Einaudi

Lo ammetto senza problemi: quando devo leggere un libro che più che un libro è una reliquia, mi prende una paura boia. È quella stessa paura che ti prende davanti a un piatto di lasagne, quell'angoscia pura e semplice che ti stringe allo stomaco quando scopri che non sono lasagne normali ma, che ne so, lasagne alle verdure. Tu resti di stucco e ti disperi, dentro di te. Non avevo mai letto Il giovane Holden, così come non ho mai letto Il piccolo principe, così come ho letto altri pezzi come L'Idiota solo all'ormai veneranda età di quasi trenta anni. Li ho tutti, sugli scaffali, ma non li leggo.
Ora, sulla spinta emotiva della scomparsa di J. D. Salinger, ho preso il suo capolavoro tra le mani. Dico la verità: non avevo la minima idea di cosa si parlasse in quel libro. Ridico la verità: anche ora non ne ho tanta idea. Sì, ok, la storia del ragazzo, dell'acchiappatore nei campi di segale, del rifiuto della società data... Sì, sì, va bene: ma poi? Dice: ma a quei tempi era un libro rivoluzionario. Va bene anche questo. Lo so, anche solo parlare in quel modo, scrivere un linguaggio del genere, a quei tempi era una rivoluzione. Lo so, lo so. Ma poi?
Ecco perché certi libri, certi film, certe canzoni entrano nella leggenda: perché non ci si capisce un cazzo. E se non ci si capisce un cazzo, ognuno può appiopparci il significato che vuole, dal più banale al più sofisticato. Ho l'impressione che questo genere di libri sia quasi fatto apposta per durare in eterno, perché in eterno se ne cercherà il significato "vero". Ma se il significato "vero" non c'è, come si fa?